Tu eri per me la misura di ogni cosa
Ho da poco concluso la lettura di Lettera al padre, un breve testo autobiografico, una lettera scritta nel 1919 da Franz Kafka a suo padre, e mai consegnata al destinatario. Ancor prima di iniziare, io già sapevo che questo libro mi avrebbe messo in difficoltà, che per me questa sarebbe stata una lettura un po' scomoda, e forse proprio per questa ragione negli anni l’ho attentamente evitata, o forse ho solo rimandato la sua lettura ad un momento in cui poi avrei potuto sostenerla. Ed ecco che, in un soleggiato mattino di Giugno, mi sono sentita pronta e l’ho letto tutto d’un fiato.
Nel frattempo di Kafka avevo già letto La metamorfosi e Lettere a Milena, e da entrambi questi testi, il primo un racconto e il secondo un testo epistolare di rara bellezza, io dell’autore avevo percepito una sfera emotiva tormentata, caratterizzata da profonda solitudine interiore, ma anche da un senso di generale inadeguatezza nei confronti della vita, delle sue relazioni anche più intime, un carattere autogiudicante e schivo, un senso di alienazione, persino dalla sua stessa famiglia e dalla società in cui viveva.
Sin dalla prima pagina della sua lettera, ho avvertito una fortissima connessione con Kafka, o meglio con i sentimenti che possono averlo spinto a scriverla. Perché mi sono detta che avrei potuto averle scritte io quelle pagine, tanto mi rivedevo nelle sue parole. Ho provato profonda ammirazione nei suoi confronti, perché anche solo avere il coraggio di pensare certe cose, di analizzare in questi termini il proprio rapporto con un genitore, non è impresa semplice.
“…allora, e soprattutto allora, avrei avuto bisogno di incoraggiamento. Ero schiacciato già dalla tua sola presenza fisica…Già nella cabina mi facevo pena e non solo al tuo cospetto, ma al cospetto del mondo intero, perché per me tu eri la misura di ogni cosa…”
Questa è solo una delle svariate citazioni del libro che mi ha colpito e da cui voglio partire. Questa frase, a mio avviso, racchiude in sé il senso più profondo del disagio psicologico generato da un rapporto traumatico con un genitore, che può accompagnare tutta la vita di un essere umano, e anche la capacità di raccontare il dramma esistenziale di un rapporto fondamentale, quello tra un padre e un figlio, più di quanto tutte le parole che userò in questo post non saranno mai capaci di descrivere.
Viviamo in una società in cui, tra le altre cose, si idealizza con troppa facilità il rapporto genitore-figlio, e si sentenzia troppo facilmente su come questo dovrebbe essere, e su come una famiglia felice dovrebbe apparire. E questo forse non sarebbe un problema di per sé, se poi non inducesse anche alla stigmatizzazione di chi un rapporto idilliaco con uno o entrambi i propri genitori non l’ha avuto e forse non lo avrà mai. E se poi non spingesse, adulti e bambini coinvolti, a indossare una maschera per poter sopravvivere e mostrare al mondo ciò che si aspetta di vedere, il ritratto di una felicità domestica, tanto esemplare quanto inesistente.
Sento dire frequentemente che esser genitori non sia un compito semplice, ed io a questo non mi oppongo. Ma a me è sempre sembrato un modo per giustificare o scagionare, qualunque mancanza o negligenza si possa avere nei confronti dei figli. Che nella vita si vada avanti un po' a tentoni e si commettano errori, è naturale. Siamo essere umani, e l’errore è parte integrante della nostra esperienza. Bisognerebbe però anche normalizzare l’idea che un genitore non sempre sia capace di amare incondizionatamente il suo stesso figlio o disposto a fornire gli strumenti di cui poi il bambino da adulto avrà bisogno. In questo senso, non mi riferisco alle risorse materiali, al sostegno economico, ma allo sviluppo della sfera psicologica ed emotiva dell’essere umano.
Ci sono figli che all’interno delle proprie mura domestiche, della prima vera e propria comunità con cui essi entrano in contatto, crescono completamente soli. Di come un bambino si senta in una realtà simile, la società non sembra essere veramente interessata. Se poi si cresce con un tetto sulla testa, in condizioni economiche favorevoli, se si ha la possibilità di studiare, e di viaggiare, e di coltivare le proprie passioni, se nessuna esperienza è preclusa proprio grazie alle risorse familiari, allora c’è persino il rischio di esser giudicati ingrati, irriconoscenti, senza alcuna morale. E così il bambino cresce, con un senso di profonda inadeguatezza verso se stesso e verso i propri sentimenti, che non trovano mai un riscontro fuori da sé stesso, ma soprattutto con un enorme senso di colpa. Perché non comprende come, in tanta ricchezza e in tanta abbondanza, egli non riesca comunque a sentirsi mai veramente amato, visto, riconosciuto e capito.
Ma se la società nel frattempo ci sta insegnando che tutto ciò che abbiamo equivale a ciò che siamo, allora il bambino penserà di esser responsabile di tale divario esistenziale, perché lui in fondo non ha mai avuto la fortuna di riconoscersi in ciò che ha. Pertanto, in lui si innescherà un pericolosissimo meccanismo di sopravvivenza, e inizierà a pretendere sempre più da se stesso, a giudicarsi costantemente, a voler fare sempre di più, e sempre meglio, pur di dimostrare al genitore di essere meritevole della sua attenzione, della sua presenza e del suo amore. E mentre il mondo lo ammirerà per le sue doti straordinarie, per i suoi traguardi sempre raggiunti, per i suoi trionfi, per il suo saper apparire sempre sicuro di sé stesso, adatto ad ogni occasione, il bambino invece continuerà a sentirsi sempre e solo un impostore. Quante volte nel corso della sua infanzia e adolescenza avrà invece pensato di non esser stato abbastanza bravo, bello, furbo, svelto, interessante, intelligente, divertente, educato, forte, brillante, sicuro? Quante volte quel bambino si sarà sentito umiliato, quando puntualmente, nonostante tutti i suoi sforzi, non ha mai ricevuto ciò che ha sempre anelato, l’amore incondizionato del genitore? E questo che genere di ferita gli ha provocato? E in che modo tutto questo lo ha preparato alla vita, e alle relazioni interpersonali con il mondo esterno, una volta diventato adulto?
Esser genitore è una avventura complessa, ma anche esser figli lo è. La differenza è che nel secondo caso, non vi è scelta. Pertanto, mi piacerebbe vivere in un mondo che fosse più attento a questi aspetti, a realtà di questo tipo, sicuramente più complesse da riconoscere rispetto ad altre più evidenti e non meno gravi.
Il carattere di una persona si forma attraverso l’esperienza. E se è vero che l’adulto ha la responsabilità, non solo verso se stesso ma anche della società in cui vive, di analizzarsi e di guarire le proprie ferite interiori e i propri traumi, è anche vero che esiste un tempo, che a volte si estende anche nell’età adulta, in cui il nostro bambino interiore, ancora incompreso e inascoltato, influenza le nostre azioni e le nostre interazioni sociali. A volte, è necessario scontrarsi con la realtà, imbattersi in situazioni difficili, vivere un evento traumatico, per aprire gli occhi e intraprendere un percorso di guarigione interiore. Altre volte serve un cuore infranto, struggersi per un sentimento talmente grande da non poterlo tenere tutto racchiuso nel proprio cuore, anche fallire. A volte, è necessario provare sulla propria pelle il dolore di tutto ciò che fino a quel momento si è sempre temuto, e quindi evitato, per essere finalmente capaci di comprendere la radice di ogni problema, per decidere di smetterla di concentrarci sugli altri, per abbandonare tutti i luoghi di non reciprocità in cui ci siamo stanziati e per iniziare a lavorare su noi stessi. Per renderci conto di essere, contro ogni aspettativa, abbastanza forti da poterlo affrontare, e da esso trarne un giorno il più grande insegnamento di vita.
Riconoscere di aver avuto una relazione tossica con un genitore, e nonostante tutto riuscire a non provare più rabbia o risentimento, ma al contrario essere capaci di lasciare che la nostra sensibilità venga finalmente liberata e coltivata, è un processo complicato, lento ed estremamente doloroso.
A mio padre devo molto, ma non tutto. E vivo nella profonda convinzione, che mai m'abbandonerà, che di sé stesso lui mi abbia dato tutto ciò che ha potuto. Non sempre però ciò che si può dare, equivale a ciò che l'altro merita di ricevere. Non sempre ciò che un genitore è capace di insegnare, è tutto ciò che un bambino ha il diritto di imparare. Verso l'uomo che per me lui è stato, ho sempre provato profonda ammirazione e rispetto. Da lui ho imparato tutto ciò che si può imparare quando si osserva qualcuno sempre e solo da molto lontano, come fosse un perfetto estraneo, uno straniero irraggiungibile dal mio stesso sangue, mentre ogni giorno si affanava a muoversi nella sua impegnatissima vita, da cui io mi sono sempre sentita esclusa. Da lui ho appreso, indirettamente e non perchè me lo abbia veramente voluto insegnare, il senso della responsabilità e della lealtà verso il lavoro, della dedizione assoluta verso una passione, il coraggio di sognare, di crescere e di investire tutte le proprie energie in ciò in cui si crede, il senso della resilienza alle difficoltà e alle sfide della vita. Per questo gli sarò sempre immensamente grata. Non gli riconosco, tuttavia, il merito di avermi fatta sentire compresa, vista e incondizionatamente amata.
Sono cresciuta sola e ho fatto tutto ciò che ho potuto per sopravvivere in questo mondo, con tutti gli errori e le cadute di chi non ha mai avuto una guida a mostrargli il cammino. Per questo, e molte altre ragioni, mi reputo una donna straordinariamente forte, perché so che le mie scarpe sono state sin troppo scomode da indossare. Avrei potuto anestetizzare il mio cuore, per non permettere a nessun altro di farmi del male. E invece ho scelto di dare agli altri tutto ciò che io non avevo mai ricevuto. Per tutta la vita ho dato amore, anche quando non sono stata amata. Ho dato comprensione, anche quando non sono stata capita. Ho parlato, anche quando non sono stata ascoltata. Ho chiesto scusa, quando avevo sbagliato, anche se ero stata ferita. Ho dato tutto di me, anima e corpo, senza risparmiarmi un solo giorno. Questo mi rende orgogliosa della donna che sono diventata ed estremamente grata per tutte le persone meravigliose che mi sono concessa di amare, a cui ho aperto il mio cuore e con cui ho condiviso un pezzo di strada. Mi rispetto e amo profondamente tutto di me stessa, anche i miei sentimenti, soprattutto quando, nonostante le delusioni, io il mio cuore non lo chiudo ma trovo ancora la forza e il coraggio di rialzarmi e di continuare ad amare.
Alla bambina che sono stata, e che in qualche modo vive ancora dentro di me, auguro di accettare che tutto ciò che è stato, era tutto ciò che poteva essere e di trovare finalmente la pace che ha sempre meritato.
Lady Margot
1 Luglio 2023
Comments