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  • A Lucio

    Caro Lucio, è da un po' che volevo scriverti. Spero che questa lettera ti trovi bene, ovunque tu sia. Ascolto la tua musica e leggo le tue poesie da così tanto tempo che ormai non saprei proprio collocare temporalmente il nostro primo incontro. Certo è, che con te, è stato sin da subito grande amore. Hai fatto, senza saperlo, da sottofondo a gran parte del mio vissuto. E mi sconvolge ancora rendermi conto che per ogni momento cruciale, ogni occasione io riesca a trovare ancora una tua canzone che naturalmente ci si adatti. Alcune di esse, le vivo un po' come squarci nello spazio-tempo, perché mi riportano all’infanzia, a quando di domenica seduta in auto accanto a mio padre, mi piaceva canticchiare i tuoi testi a squarciagola, senza mai capirci molto. Eppure già mi stavi scorrendo dentro. La maggior parte del tuo repertorio l’ho scoperto solo più avanti negli anni dell’università, negli anni di subbuglio interiore, di cambiamento, di evoluzione, di conoscenza, di speranza, di oblio e di sperimentazione. Sono stati anni fugaci, violenti, impetuosi, scandalosi, agitati, tormentati. E tu, comunque, avevi già pubblicato canzoni che rispecchiavano perfettamente il mio mare interiore. Tu avevi già navigato quelle acque e imparato a dominarne le correnti. Io ancora no. Perciò a tratti è stato come avere nel cuore una bussola, forse una stella polare, non tanto da seguire ma forse più da ammirare. E persino adesso che quella giovane ragazza acerba, sempre intransigente, impavida e troppo impertinente, ha finalmente lasciato il posto alla donna un pò più docile, paziente e radicata che nel mio corpo ora risiede, ancora una volta le tue canzoni si adattano, o meglio riadattano, meravigliosamente alla mia metamorfosi interiore. Non saprei dire quale sia la mia canzone (tua) preferita. Non credo ce ne sia una. Le tiro fuori e le indosso sempre tutte, così come si fa con dei vecchi gioielli di famiglia, per poi decidere quale meglio si accosti alle incombenti circostanze. Ho pensato per un attimo di riportare qui alcune brillanti citazioni del tuo lavoro, le mie frasi preferite, in segno di rispetto, di attenzione, ma nello stesso istante in cui l’ho pensato, mi sono resa conto di quanto questa idea in realtà fosse futile. Il tuo genio non ha alcun bisogno di un mezzo in cui diffondersi, in quanto esso stesso è il mezzo. Caro Lucio, con questa lettera volevo solo esprimere tutta la gratitudine che provo ogni volta che ti ascolto. Ti ringrazio infinitamente per i preziosi doni che ci hai lasciato in prestito su questa Terra. Spero risuonino anche lì dove ora tu trionfante risiedi. Stammi bene! LM P.S. già vivevo in Germania quando ho scoperto che la tua “Futura” nasceva nel 1979 in una Berlino ancora divisa dal Muro. Mi sento un po’ malinconica quando ci penso, ma non saprei proprio dirti il perché! Te la lascio qui, magari ogni tanto ti va di riascoltarla! Ciao!

  • La prima domenica di Avvento

    All’alba del nuovo giorno uno strato di fitta nebbia avvolgeva la città. I grandi tetti a punta delle case bavaresi sembravano rimpicciolirsi sotto il suo peso. I corvi, che popolavano la zona, desistevano dal posarsi su quel grande tronco ghiacciato. Lo sfondo era pallido, sfocato, immobile. Era la prima domenica di Avvento. Un giorno di festa. I più avrebbero celebrato attorno ad un abbondante colazione, riuniti con i propri cari e conoscenti. Altri avrebbero passeggiato tra i carretti dei mercatini di Natale (Weihnachtsmarkt), trovando conforto al gelo in un fumante bicchiere di Glühwein. I locali del centro, già riservati da tempo, si mostravano con il loro aspetto migliore. L’austerità del periodo storico strideva con l’abbondanza delle decorazioni, era un carosello di luci, vivande e sonore risate. Tutto intorno era una promiscuità di persone, scrigni di culture dissonanti, portatori di storie, racconti di terre lontane. La giovane donna si affacciava alla cerimonia e alla vita, con animo incerto ma non per questo meno attraente. Proveniva da un altro Paese. Il colore degli occhi e dei suoi scuri capelli, la sinuosità del suo corpo, piccolo ma proporzionato, erano la dichiarazione più esplicita della sua provenienza. La sua pelle dal sapore di mare, rifletteva ora il pallido colore della neve del Nord. Tuttavia, emetteva alla luce un riflesso madreperlato. Si ritrovava spesso a passeggiare lungo i viali alberati della città, ne osservava con stupore i colori e le forme, ma non trovava alcuna somiglianza con i paesaggi gelosamente custoditi nella sua memoria. Era proprio quel contrasto, in effetti, ad incoraggiare il suo riemergere dei più dolci ricordi. Passeggiava sotto quei grandi alberi dalle mille foglie cadenti, ed ecco che si ritrovava di colpo su quel lembo di sabbia e sassi, scalfito dall’incessante moto del mare, ove spesso in gioventù si era ritrovata a sognare e a fare l’amore. Era un tumulto di pensieri, memorie, poesie che si rincorrevano ininterrottamente nella sua mente. Era un turbinio di sentimenti passati e presenti, una malinconica ballata di limpide memorie. Era certamente una vita lontana, quella che aveva condotto in quel paradisiaco Paese baciato dal sole. Proveniva da una contesto sociale semplice, da un piccolo villaggio che, come una perla, giaceva adagiato sul Golfo. I suoi genitori le aveva regalato una vita serena, spensierata ed agiata. Una vita che loro non avevano avuto. La sua infanzia non era stata segnata da particolari eventi traumatici. Forse uno tra tutti, la morte della sua amata bisnonna. Aveva sette anni, giocava con emblematica innocenza infantile con tutti i cugini nell’orto fiorito dell’anziana matriarca. Le ortiche crescevano disordinate lungo il perimetro del campo. I gerani e i papaveri in fiore, che facevano capolino dal bianco muretto a secco, esalavano con orgoglio irresistibili note pungenti di rugiada ed erba. Si divertivano a strapparne via i petali, con più forza di quanta ne sarebbe stata forse necessaria ma non per questo con meno rispetto, e ad adagiarli ammucchiati in un piccolo vaso di acqua. Era così che confezionavano le loro preziose fragranze. Le riversavano poi in piccoli contenitori di vetro, che adagiavano con maestria su un banchetto di cianfrusaglie, allo scopo di venderle ai passanti come veri e pregiati profumi. Accanto alle profumate boccette floreali, vi esponevano spesso curiose collanine di variopinte perline, bracciali fatti di filo intrecciato, vecchi gusci di ricci rigurgitati dal mare. Quel mondo di giochi e di fate, con la dipartita della cara bisnonna, per sempre svanì. E così ora la giovane donna si ritrovava a percorrere una stretta via del paese germanico, a scontrarsi ritmicamente con grandi e bambini e ad ammirare colpita i minuziosi ornamenti natalizi prodotti da pazienti mani artigiane. E ancora una volta si arrestò il suo tempo interiore, una forza soprannaturale la scosse, una gentile presenza le prese la mano e la ricondusse alla sua vecchia casa. La sua adolescenza la incontrò piuttosto precoce, il suo corpo in fretta cambiava e poco più avanti trovò il primo amore. Era acerba, impaziente, trepidante di vita e di sogni. Il suo viso abbronzato, quelle piccole colline ancora inesplorate, offrivano ora un panorama di delicata bellezza. Era il giorno della festa del paese, le strade erano invase di gente e fumi. Ai bordi delle strade bancarelle e uomini strillanti offrivano zucchero filato e palloncini. Poco più avanti la spiaggia desolata appariva come una distesa fiorita, di teli e giovani innamorati. Il cielo stellato si posava audace e gentile sugli amanti appassionati, quasi a volerne incorniciare lo spettacolo sensuale. Il suo amore lo aveva regalato ad un giovane poco più grande di lei. Fu un amore estivo, breve, intenso, appassionato. Al termine della bella stagione, la dolce bambina che un tempo giocava con bambole e rose lasciò per sempre il posto alla avvenente fanciulla. La vita dopo fu altra, un incessante rincorrersi di attimi, giorni, avvenimenti, pensieri. Gioia, dolore, sorpresa, stupore, luce e tenebra, si abbattevano e avvicendavano burrascosi contro gli argini della sua anima. L’oscurità non è in fondo il risultato di un corpo irrimediabilmente esposto alla luce? Non si dava pace al pensiero di quanta vita avesse già vissuto, di quanta bellezza avesse attraversato violentemente in quell’unico istante i suoi occhi e la sua esistenza. Era lì, gelida e immobile, in un paese a lei così estraneo eppure mai come ora si era sentita più viva. Un fuoco interiore le ribolliva il sangue nel corpo, avvertiva all’improvviso un forte calore tra le gambe e sul viso. L’apparire fortuito di un volto insensatamente a lei familiare in quel fiume di gente, la ricondusse bruscamente al presente. Un buffo cappello marrone nascondeva uno stanco sguardo pacato, più sotto invece si apriva un sorriso sornione. Qualcosa nel suo modo di fare la scosse. Era reale o pura visione? Lo seguì senza pensarci due volte mentre lui si avventurava in un vicolo un poco isolato. L’uomo arrestò il suo passo sicuro e si voltò di scatto, posando gentile la sua valigetta di pelle ricolma di libri e scritti, sul gradino della casa vicina. La giovane donna si fermò dinanzi a lui, titubante ma non intimorita. I loro sguardi si toccarono, come fossero gli occhi a volersi baciare, e sembrò come se tutta la storia e il mistero del mondo, confluissero ininterrotti tra le loro anime. Due estranei ora si ammiravano, l’uno perso nell’enigmatico volto dell’altra. Non si dissero mai una parola, né i loro corpi si toccarono. Eppure avvertirono lampante nel cuore e nelle membra l’impeto di passione più irruento che avessero mai provato in tutta la loro vita. Come tutte i misteri più belli del mondo, non seppero mai spiegare a se stessi e agli altri, quanto accaduto. Non si rividero più da allora. Non nella realtà, ma certamente nei loro più intimi sogni. I due innamorati erano frutto di uno stesso minuscolo seme, spezzatosi migliaia di anni addietro sotto l’azione di una mistica forza celeste, che rimase nascosto sotto strati di fango e che germogliò al giusto tempo in due lande diverse del mondo. I due amanti perduti erano la metà di una mela perfetta. Le loro anime in perpetua ricerca erano per sempre destinate a incontrarsi e a rinnovare all'unisono la loro immortale promessa d’amore. Lady Margot Novembre 2022

  • A Mente Aperta

    A fior di pelle e d’anima Ad occhi aperti e attoniti A bocca lieta e stretta Il tuo più audace Organo Ignuda mi trovò. Lady Margot Novembre 2022

  • Il Corvo

    Suona Chopin, il Corvo si posa. Fuma il caffè, è persa la sposa. È umido dentro, caldo il suo seno. Posa la tazza, il Corvo va via. Lady Margot Ottobre 2022

  • One day

    On the other side Of this empty Land Would I be for you? Would you be for me? On another Land Of this empty World Would we set us free? Would we learn to fly? Lady Margot

  • Di mare, di terra, di vita

    La solitaria fermata del bus del piccolo paesino di provincia, pullulava a quell’ora di assonnati studenti ed umili lavoratori pendolari. Il logoro marciapiede su cui ora i ragazzini si accumulavano impazienti per accaparrarsi sul mezzo il posto a sedere, correva lungo tutta la strada principale, interrotto a tratti da fossi profondi e ciuffetti di erba selvatica. Case fatiscenti si affacciavano sulla strada trafficata e offrivano ai passanti una vista tutt’altro che accogliente. I balconi, esili e malmessi, sorreggevano a fatica fili arrugginiti di metallo, su cui sovente svolazzavano tovaglie umide e candido bucato, dalle intense note di lavanda e sapone di Marsiglia. Più avanti sulla strada, si intravedeva lo storico bar del paese, che ormai da molte generazioni riforniva ligio, di gelato e pasticcini, tutti gli abitanti. Era lì che gli uomini del paese si raccoglievano dopo il lavoro o nel fine settimana, a camminare su e giù per il corso e a ragionare sui più disparati argomenti che la prima pagina della Gazzetta del Mezzogiorno, come una vecchia pettegola di paese, puntuale propinava. La strada maestra del centro si diramava poi in una fitta rete di minuscole stradine e vicoletti, ancora rimasti inviolati dal tocco inerme di cemento e asfalto. In questi affascinanti meandri del villaggio, l’aroma intenso di sugo casalingo, si intrecciava e scontrava con quello di candeggina e incenso. Qui convivevano per ironia gli ultimi anziani e i primi forestieri del paese. Tra un vecchio cactus e una odorosa pianta di basilico, si nascondevano innocenti i giovani innamorati. Così come da bambini avevano fatto insieme ogni estate sotto il rovente sole d’agosto, ora esploravano e amavano, in quel labirinto di strade strette e aggrovigliate, i loro svestiti e acerbi corpi. Più avanti, di nascosto in un altro dei tanti antri, si incontrava dopo il tramonto la comitiva dei ragazzi più grandi e popolari. Tutti in piedi a formare un cerchio, si passavano frettolosi una fumante sigaretta senza il filtro e qualche bottiglia tiepida di una mediocre birra a poco costo. Un giorno, sarebbero diventati loro e a buon diritto i padroni del centro cittadino. Era una vita lenta, rilassata, scandita dal regolare susseguirsi di giorno e notte, luce e buio, caldo e meno caldo. La sveglia suonava ogni giorno alle sei, il marito si preparava frettolosamente per andare al lavoro, la moglie attendeva impaziente il gorgoglio della moka, le figlie ancora sepolte nel tepore del letto, attendevano il consueto irrompere della madre nella loro stanza, la quale con due fumanti tazzine di caffè, annunciava l’ufficiale inizio di un nuovo giorno. Scene di vita comune, di una semplice famiglia tra tante. Il viaggio in bus verso la città, che ogni giorno conduceva i ragazzi a scuola, era sempre una grande avventura. Strade statali e di campagna si avvicendavano durante tutto il tragitto, piccole chiesette campestri apparivano immacolate tra le sconfinate vigne rigonfie di Negroamaro e Primitivo. Immense distese di papaveri e margherite selvatiche affioravano in modo casuale tra campi di terreno rosso e spighe di grano. I contadini chinati già da ore sui fertili appezzamenti, riponevano ogni giorno nella madre terra tutti i loro semi, sudori, lacrime e speranze. In città la vita era diversa, più meccanica, veloce, disordinata. Le tinte variopinte del paesaggio rurale lasciavano bruscamente il posto a uno sfondo tetro, grigio, industriale. Il nauseabondo odore di gas, metallo e metano, provenienti dalla vecchia acciaieria, irrompeva in tutte le case e sovrastava l’odore marino, dalle acide note di zolfo e alga. Quando i venti di Tramontana e Maestrale si abbattevano sulla costa, le tossiche polveri metalliche si rovesciavano copiose su auto, balconi, tetti e strade, ricoprendo la metropoli con un asfissiante e spesso mantello rossastro. La vecchia febbrica, come un mostro feroce, riversava furiosa e instancabile le sue più perfide ire sulla ormai morta natura circostante e ad ogni suo fiato portava via con sé anche la povera gente. Adulti, anziani e bambini, morivano silenziosamente sotto la sua tossica ombra. Uno sterminio legalizzato, allo scopo di arricchire i già ricchi e schiavizzare i più. A scuola i giovani venivano segregati in caste e classificati, come squallida merce, per provenienza sociale. I ragazzi di paese, generalmente, non si amalgamavano a quelli di città. Era una legge non scritta, una fisiologica realtà, che si perpetrava identica anno dopo anno. Nessuno a quel punto ne conosceva il motivo, era solo un vecchio retaggio culturale che si portava avanti per tradizione, come un segreto di famiglia di cui nessuno ormai conosce la storia. La ragazzina si accingeva come ogni giorno a percorrere quel lungo viale sul mare, che dalla ultima fermata del bus la conduceva in pochi minuti alla sua scuola. Si isolava volutamente dal piccolo gruppetto di ragazzi diretti allo stesso edifico. Attendeva paziente che si allontanassero, e poi in tutta calma ne seguiva la scia. Amava passeggiare in solitaria, mentre il suo sguardo si perdeva lontano tra le punte bianche delle onde che si infrangevano sulle navi mercantili e le piccole barchette dei pescatori. A volte, in quell’azzurro velo infinito poteva persino scorgere le pinne di alcuni delfini che si rincorrevano liberi nel mare, altre volte le linee sinuose delle montagne della regione lontana. Per lei era quella l’ora più bella, un rituale che praticava quotidianamente e che le regalava momenti di mistica calma e pace interiore. Era di una bellezza disarmante, la sua pelle leggermente dorata emanava spontaneamente un aroma dolciastro e inebriante, i suoi occhi avevano i colori delle foglie di ulivo esposte al sole, i capelli lunghi e castani, avvolgevano con grazia il suo corpicino minuto. Tuttavia, il suo splendore, che come un canto di sirena richiamava e affascinava gli uomini al suo sol passaggio e inteneriva il cuore di tutte le madri, non era il suo punto di forza. Quel giorno una voce alle sue spalle interruppe la sua personale liturgia. Una giovane dall’insolito aspetto mascolino le apparì di colpo davanti. Le chiese senza troppi giri di parole di condividere per un tratto la comune strada. Non si erano mai incontrate prima, eppure frequentavano quel luogo da molto tempo. La sua pelle chiara contrastava con i neri capelli ricci e corti, che a loro volta ne incorniciavano a perfezione il viso. Il suo sguardo era intenso, forte, sicuro. Le sue labbra, color ciliegia, risaltavano sul candido volto latteo. Le due a vederle da fuori non pareva avessero molto in comune, se non la loro destinazione. Angelica e divina l’una, misteriosa e seducente l’altra, camminavano ora vicine, scambiandosi banali frasi di circostanza. Presero così a incontrarsi ogni mattino da quel giorno, e a condividere splendide il breve tratto di strada. Provarono da subito una forte vicinanza emotiva, un impulso travolgente che solo in quella prima ora del mattino con il loro incontro riuscivano a placare, un sentimento discordante, di tenerezza e frenesia. Si incontrarono lì ogni giorno per i successivi tre anni. I loro corpi lentamente maturarono e, come bellissimi fiori di cui con solerzia ci si prende cura, si protesero ancor più incantevoli al mondo e alla vita. Quell’ultima estate che le vide passeggiare insieme, come due bellissime dee, l’una nell’ombra dell’altra, fu straordinariamente calda. Poi la scuola, così come il loro rapporto, per sempre finì. Provarono una profonda e inconsolabile tristezza, un vuoto interiore abissale. Eppure l’amore che gli era stato raccontato, era altro. Eppure in quel piccolo borgo del Meridione, in un tempo non sospetto e comunque non assai lontano, due giovani donne inesperte, lungo una strada a strapiombo sul mare, ignare e inconsapevoli, follemente si amarono. Lady Margot

  • Il Café del Civico 13

    All’ombra di una maestosa pianta tropicale, giaceva immobile la gentile signora. Provava quel giorno un insolito e insistente gelo interiore, come se uno spettro dispettoso le avvolgesse prepotente per intero il corpo. Il mite autunno dorato, lasciava ormai il posto al rigido inverno. Le strade erano una distesa di fogliame e fango, generatosi abbondante a seguito delle cospicue piogge. L’aria appariva densa, rigonfia di umidità, e quasi feriva il volto e le nude estremità esposte ai suoi venti. Il forte odore di fumo e legna bruciata, si disperdeva a fatica dai camini sopra i tetti della città. Le lunge giornate estive, dagli incantevoli tramonti infuocati, avevano ormai ceduto il passo alle più profonde oscurità della lunga e bianca stagione. L’antica biblioteca universitaria del centro cittadino era ricolma di giovani studenti, che cercavano disperati di rompere il monotono scandirsi lento e pesante del tempo, circondandosi dei propri simili. L’uomo soleva percorrere estenuato ogni giorno la stessa strada, che dalla stazione lo conduceva agli uffici adiacenti alla biblioteca, dove da qualche anno prestava inappagato i propri servizi. Non amava particolarmente il suo lavoro, né i ritmi serrati che gli imponeva, ma per fortuna o forse per disgrazia questo gli riusciva straordinariamente bene. Non aveva particolari ambizioni, si era rassegnato a una vita che forse qualcun’altro, o il caso, aveva scelto per lui. In passato però aveva avuto il coraggio di sognare. Aveva viaggiato in lungo e largo durante i suoi studi superiori, si era appassionato alle culture straniere, soprattutto a quelle meno note e più lontane, apprezzava particolarmente l’arte e forse sapeva ancora riconoscerla, quando la incontrava. La bella e straniera signora era solita intrattenersi passeggiando tra le popolose vie del piccolo centro, ammirando le grandi vetrine agghindate da folte ghirlande e drappeggianti tende, e frequentando d’abitudine le altolocate mogli dei più influenti signori del paese. Si incontravano ogni pomeriggio puntuali nel Café del Civico 13, il Café più chic di tutto il borgo. Un salotto francese, tutto fronzoli e lustrini, dagli arredi raffinati, eleganti porcellane minuziosamente dipinte a mano e preziosi centrini di pregiato e avana macramè. Gli assidui incontri offrivano loro l’occasione di evadere dalla loro noiosissima e soporifera vita elitaria, sorseggiando un prezioso Mimosa esalante le note del più costoso Champagne e scambiandosi elettrizzate le più intime confidenze sulle loro avventure romantiche, coniugali e non. Ora si intrattenevano a osservare vogliose lo statuario corpo dell’uomo seduto al loro fianco, ora si scambiavano sorrisetti maliziosi e complici, sfidandosi a richiamare su di sé tutta la sua smania ed attenzione. Erano differenti, eppure tutte equamente meravigliose. Elegantemente ricoperte da stoffe rare e delicate, indossavano di consueto una lingerie ancor più costosa, che accarezzava morbida e leggera le loro seducenti e prosperose forme. Erano talmente splendide, che chiunque le incontrasse non poteva fare a meno di fermarsi ad ammirarle libidinoso e incantato. Attiravano allo stesso tempo e con la stessa brutale intensità le più sfrenate fantasie degli uomini e le più aspre gelosie delle mogli. Fu proprio davanti al prestigioso Café che, un giorno qualunque, l'affascinante signora e lo scialbo uomo, casualmente, si incontrarono. Non appartenevano allo stesso mondo, né condividevano le stesse possibilità. Fiera e dall’arrogante aria borghese lei, miserabile e visibilmente angosciato lui. Due facce stridenti e opposte della complessa e mutevole società in cui loro stessi vivevano. E forse fu proprio perché preso dal suo tormento interiore che l’uomo, al cospetto dell’ambiziosa venere, non la degnò neanche di uno sguardo. E forse fu proprio per la stessa ragione che lei, per capriccio o per provocazione, insolente gli si avvicinò. Fu un incontro extrasensoriale. Si raccontarono moltissime storie, di viaggi e di vita lontana, sorseggiando distratti un aromatico tè dello Sri Lanka. I loro pensieri, turbolenti e profondi, come onde del mare in tempesta si scontravano e accavallavano, mentre le loro anime, come nastri di purissima seta, si scivolavano lievi l’una sull’altra, accarezzandosi insidiose e sensuali. Fu una esperienza inebriante e singolare per entrambi. Mai avevano provato una passione tanto sfrenata, mai avevano sentito un godimento interiore così pronunciato. Fu un vero e proprio orgasmo dell’anima, un momento di passione violenta che si consumò integrale al tavolo del bar, a cuori aperti e vestiti addosso. I due svuotati ed esausti, giunti al termine del faticoso amplesso, con gratitudine si congedarono. Scioccati dalla paradossale esperienza, e a passo insolitamente svelto si diressero briosi, ciascuno alla propria casa. Quella notte, dopo un tempo abbondante e per questo a tutti sembrato infinito, attirarono a sé i rispettivi coniugi e con struggente desiderio li amarono. Lady Margot

  • Excursus on a date

    Scarlet her lips on the glass. Purple the wine on the tongue. Black the void in his mind. White the pleasure underway. Lady Margot

  • Metamorfosi

    Era una notte insonne quella che trascorreva, lenta e regolare, tra le mura della sua abitazione. Il silenzio assordante che da sempre caratterizzava le ore più cupe della giornata, ora si diffondeva potente, come un insopportabile riverbero, in tutta la claustrofobica casa. Lei fissava dalla grande finestra del suo salotto, senza emozione, il sottile strato di ghiaccio formarsi sui tetti delle case circostanti e, contemporaneamente, nel suo cuore. Erano stati giorni decisamente freddi quelli appena trascorsi, tuttavia non così tanto se comparati con il suo gelo interiore. Il suo corpo, mai le era apparso più sterile e alieno. La sua mente brulicava di immagini e di storie mai nate, di libri e di vita passata. I due ragazzi, ancora piuttosto giovani, frequentavano entrambi l’università. Eppure il loro rapporto sembrava già consumato da una tediosa monotonia, simile a quella di una vecchia coppia di persone molto più avanti negli anni. Vivevano insieme già da qualche anno in un grazioso trilocale nei pressi del Campus. Era una tipica casa per studenti, lievemente decadente, ma allo stesso tempo calda ed accogliente. Il pavimento in lucido granito grigio, rifletteva la sagoma di tutti i mobili a basso costo che i due, ancora innamorati, si erano tanto divertiti a scegliere e montare. Ora che quell’ebbrezza d’amore era svanita, questi gli apparivano decisamente più squallidi. Non avevano molto in comune, se non gli studi che con tanta fatica avevano quasi portato al termine. Infatti, provenivano da mondi piuttosto diversi e nutrivano passioni altrettanto complementari. Di famiglia medio-borghese lui, cresciuto nei migliori circoli sportivi e istruito al solo scopo di dirigere da grande la ricca attività di famiglia, di origini molto più umili lei, ma con un’ambizione e una determinazione semplicemente rare. Per un attimo le era persino piaciuto far parte del suo mondo, un mondo che da bambina aveva sempre immaginato, a tratti forse anche sognato. In quegli anni di vita condivisa aveva avuto l’opportunità di conoscere persone piuttosto importanti, di partecipare agli eventi più esclusivi del Paese, di viaggiare in tutta Europa, sempre al suo fianco, e di sentirsi finalmente al sicuro. Poi le gioie dei primi tempi, la frenesia dei primi incontri scatenati, i viaggi improvvisati, le notti spese in spiaggia, le cene a lume di candela, lentamente lasciarono il posto alla routine. Di tutto questo amore non rimaneva altro che una labile traccia di fumo, fotografie e cenere. Erano stati mesi di duro lavoro per entrambi, dal momento che erano prossimi alla laurea. Questo da una parte dava loro modo di distrarsi dai comuni problemi di cuore e dall’altra gli offriva un’ottima scusa per frequentarsi il meno possibile. Lui aveva scelto di seguire un tirocinio in azienda, questo lo avrebbe aiutato ad inserirsi poco più avanti nel mondo del lavoro. Lei, invece, aveva scelto di svolgere un lavoro di ricerca. O forse fu lei ad essere stata scelta, giacché quella posizione le era stata offerta dal professore dell’unico corso del primo semestre che aveva frequentato. Era un giovedì mattina e, poco dopo aver sostenuto brillantemente l’esame di cui il docente era titolare, egli stesso la invitò ad accomodarsi e ad attenderlo nel suo ufficio, mentre lui congedava gi ultimi studenti, affinché potessero avere un breve colloquio in cui le avrebbe illustrato il progetto. È così che quel giorno egli divenne a tutti gli effetti il suo supervisore. Mentre era seduta in trepidante attesa sulla morbida poltrona in velluto verde del suo studio, non aveva potuto fare a meno di notare l’atmosfera surreale che lì dentro si respirava. Sulla sua scrivania in legno scuro apparivano, ben organizzati, alcuni libri rilegati in pelle, degli occhiali, una pipa, dozzine di tesi di laurea da lui correlate, e una grande agenda nera. Su tutte le pareti intorno a lei erano appese fotografie raffiguranti dettagli di ponti, immensi edifici e ferrovie, sulla superficie verticale del suo armadio erano invece incollati ritagli di giornale, citazioni famose e il ritratto in bianco e nero di una donna, forse un attrice, di altri tempi. Era decisamente uno spazio animato da contrastanti e forti pulsioni. C’era un velo di mistero che avvolgeva quelle mura, una energia che metteva in tensione la sua anima. Provava uno strano e innocente imbarazzo ad attenderlo lì tutta sola. Cosa avrebbe fatto se qualcuno, forse un suo collega, avesse fatto irruzione nella stanza per cercarlo? Come avrebbe giustificato la sua presenza? Se avesse fornito la vera ragione, le avrebbero creduto? Erano tutte domande che confusamente e senza alcuna logica le stavano piombando in mente. Aveva persino avuto l’istinto di alzarsi e di venir fuori da lì in tutta fretta per attenderlo nella vicina sala studenti. Un luogo in cui si sarebbe certamente sentita più a suo agio. Mentre in preda al panico e con le guance un po' arrossate elaborava minuziosa una strategia di fuga, il professore aprì la porta e senza neanche saperlo la liberò da quello stato di delirio interiore, mentre con passo sicuro si diresse verso la sua seduta. La conversazione che da lì seguì, fu niente più che una normalissima interazione tra studente e docente, lui le introdusse lo scopo e le modalità della ricerca e lei, attenta, lo ascoltava ammirata, con il volto di una persona concentrata e con lo sguardo di una persona già appassionata. Accettò il lavoro senza pensarci due volte e mentre il colloquio era ormai diretto verso la fine Lui aggiunse, con un sorriso appena accennato, che l’aveva già notata durante il corso, che aveva trovato alcune sue osservazioni in aula particolarmente sensate e interessanti. Si guardarono ancora per un istante. Poi si congedarono. Quel giorno, giunta finalmente a casa, provò una strana sensazione di eccitazione e di agitazione interiore. Si spogliò di tutti i suoi vestiti, della pesante giornata appena conclusa e sciogliendo i suoi lunghi capelli neri, che come minuscoli serpenti striscianti si allungavano sul suo piccolo seno e le venivano giù per tutta la schiena, si immerse con delicatezza in uno schiumoso bagno caldo esalante le più dolci e sensuali note orientali di Sandalo e Patchouli. Candele bianche illuminavano fioche gli angoli del lungo bagno, altrimenti completamente buio. Una radio, poggiata sul traballante sgabello accanto al lavabo, suonava una vecchia canzone anni ‘60. La sua pelle umida rifletteva ora il luccichio di tutte le migliaia di bollicine che come un sottile velo la ricoprivano mentre sembrava volessero ribollire all’idea di galleggiare sopra le sue nudità. Con la mano seguiva distratta la linea del suo corpo, quasi a voler delineare il confine tra lei e il modo esteriore. Poi ad un tratto la lasciò sprofondare nello spazio che si apriva tra le sue gambe, abbandonandola alla forza del peso crescente della sovrastante colonna d’acqua. Quella sera si arrese ai propri impulsi e, dopo molto tempo, placò da sé i suoi tormenti interiori. Incontrava il suo supervisore ogni mattina nel suo ufficio, prima di dirigersi in laboratorio. All’inizio solo per necessità, dal momento che proprio da lui doveva ancora imparare tutto. Lui le offriva istruzioni dettagliate e dimostrazioni sull’utilizzo di ciascuno strumento che poi da sola avrebbe dovuto utilizzare. Era un uomo attento, preciso, metodico, paziente. Soprattutto paziente. Lei lo osservava sempre, ne studiava ogni minimo movimento, scriveva tutto, aveva il costante terrore di fallire alla prima esercitazione in solitaria e allo stesso tempo era determinata a dimostrargli presto di essere all’altezza delle aspettative. Era una ragazza devota, appassionata, impaziente. Soprattutto impaziente. A casa le cose per un po' erano persino cambiate. Forse per l’entusiasmo che attraversava le loro mutevoli vite, quel brio che naturalmente accompagna l’inizio di ogni una nuova avventura, o forse perché grazie ai nuovi lavori quasi non si incontravano, l’atmosfera casalinga era diventata decisamente più frizzante, vivace, c’era di nuovo vita in quell’universo. Ora i due si vedevano, di nuovo, si parlavano. Il momento di condivisione per loro era la cena, l’unico pasto della giornata che preparavano insieme. Attorno alla tavola imbandita, si raccoglievano e raccontavano le proprie giornate, le nuove esperienze, gli incontri, le scoperte, i fallimenti. Avevano davvero molto da raccontarsi. Lo facevano con gioia. Si sentivano di nuovo felici. Nel frattempo il sottile strato di ghiaccio che ricopriva quella notte la sua anima, piano, iniziava a sciogliersi. Il nuovo lavoro le piaceva molto, anzi lo amava, dal momento che prevedeva poca interazione con la gente e molta interazione con i libri ed i materiali che lei stessa doveva studiare e analizzare. Trascorreva quasi tutta la sua giornata rinchiusa in quel malmesso laboratorio sotterraneo, dalle smorte pareti giallo chiaro e dagli sterili banchi metallici su cui adagiava con minuzia i suoi quaderni e i campioni di prova. Per quanto angusto, lo considerò sin da subito il suo piccolo pezzo di mondo. Lì poteva finalmente isolarsi e prendere pace, giacché raramente veniva frequentato da altri studenti, poteva riflettere e con la massima concentrazione anche lavorare. Lì sotto persino il telefono quasi non aveva segnale, e così poteva anche schermarsi da qualunque fonte di distrazione esterna. Ormai aveva ricevuto già da qualche mese le chiavi dell’edificio universitario, affinché potesse eseguire in completa autonomia i suoi esperimenti, ma ancora ora, ogni volta che inserendo la chiave nella serratura di quel portone faceva per aprire, provava dentro di sé un senso di incredulità mista a grande orgoglio e gratificazione. Gli incontri con il suo relatore si erano ormai trasformati in un rituale. Negli ultimi mesi avevano lavorato ogni giorno fianco a fianco. Lui ormai le lasciava fare quasi tutto da sola, giacché lei in breve tempo aveva dimostrato di sapersi destreggiare sin troppo bene in quell’ambiente e in quel ruolo che invece per molti sarebbe stato alienante. Allo stesso tempo però sentiva di non poter più rinunciare a lei e al loro incontro mattutino. Si incontravano ora davanti alla solitaria macchinetta del caffè, disposta nel corridoio adiacente al laboratorio. L’attendeva lì ogni giorno, alle 9 in punto, e quando sentiva il tonfo del pesante portone chiudersi alle sue spalle e i suoi passi veloci avvicinarsi, inseriva svelto la moneta nel distributore di vivande calde, quasi a voler replicare all’infinito la stessa finta e banale coincidenza. Avevano scoperto così di avere molti interessi in comune, non solo scientifici. Amavano entrambi la letteratura, l’arte e la musica classica, gli piaceva capire le cose del mondo e guardare le stelle. Lui nel tempo libero scriveva per il giornale più noto della città, recensiva per lo più eventi teatrali e concerti da camera. Proveniva da una famiglia italo-greca di artisti e ingegneri. Era un uomo affascinante, di bell’aspetto, sebbene già un po' avanti con gli anni. Lei lo guardava parlare e raccontarsi quasi ipnotizzata. Poteva trascorrere ore intere ad ascoltarlo esporre le proprie teorie su qualunque cosa. Su un romanzo che entrambi avevano già letto, su un vecchio film di fantascienza, sulla società mutevole in cui vivevano, sul passato, il presente e il futuro. C’era qualcosa nello sguardo irriverente della giovane, mentre replicava e spesso ribatteva con forza e passione alle sue opinioni, in quel loro modo di rincorrersi e sfidarsi nell’intricato labirinto mentale che insieme avevano costruito, che lo teneva inchiodato a lei, anima e corpo. Odiava ammetterlo, ma non riusciva a togliersela dalla mente. Nelle ore che precedevano il loro incontro, la sua mente si animava. Leggeva tutto ora con molta più passione, intenzione e attenzione e nel timore di dimenticare o perdersi in un passaggio più complesso, annotava ogni cosa sul suo taccuino. Spesso ci scriveva accanto anche il suo lungo nome, per intero. Per ricordarsi, o forse solo per verbalizzare, che certe cose, le sue più brillanti idee, solo a lei erano destinate e solo con lei voleva condividerle. La giovane coppia nel frattempo aveva lasciato ancora una volta che la monotonia calasse come un pesante e polveroso sipario sulla loro vita. Dopo un breve momento di apparente riunificazione, si erano ancora una volta allontanati. Forse questa volta per sempre. Il giorno della seduta di laurea, la coronazione dei lunghi anni di studio e di sacrificio, era ormai molto vicino. Quella sera lei aveva ricevuto un breve messaggio dal docente, in cui le chiedeva di presentarsi l’indomani, prima del laboratorio, nel suo ufficio. Anche quella notte, come qualche mese prima, avvertì dentro di sé una strana agitazione interiore. Nel cuore della notte si svegliò di colpo, aveva la pelle appena sudata, il cuore nel petto le batteva all’impazzata. Aveva certamente sognato qualcosa, ma già non se ne ricordava. Per quanto ci provasse ormai non poteva più prendere sonno e con estrema attenzione, per non svegliare il giovane dormiente al suo fianco o forse solo per non essere da lui trattenuta, scivolò via dal letto. Di fronte alla finestra del salotto ancora un po’ turbata, si tolse distratta gli indumenti da notte e la biancheria, ancora leggermente bagnati. Per un momento rimase così, immobile e nuda, ad ammirare lo sfondo buio e statico, trafitto dal freddo e sensuale irradiarsi dei raggi di Luna, che le si apriva davanti agli occhi. Poi fece alcuni passi indietro e subito fu risucchiata dalle tenebre della sua stanza. La differenza di temperatura tra il suo corpo e l’ambiente circostante, aveva contribuito a sollevare tutti i sottili peli che quasi invisibili ricoprivano il suo corpo e irrigidito le sue rosee areole. Si adagiò sul piccolo divano in finta pelle, lasciando volutamente una gamba inchiodata al pavimento. Una sensazione di calore si faceva spazio tra il basso ventre e il pube, mentre le sue piccole labbra, inizialmente strette, ora lentamente si inumidivano. Chiuse gli occhi e, soffocando con il braccio un intenso sussulto di piacere, finalmente prese pace. Quel giorno arrivò nel suo ufficio un po' più presto del previsto. Non amava fare tardi, per questo quando aveva un appuntamento generalmente finiva per essere sempre in anticipo. In questo erano uguali. Infatti, lui era già lì ad attenderla. Quando entrò nello studio, non poté fare a meno di notare che la configurazione del mobilio, o almeno una parte di esso, era cambiata. Ora sotto la finestra, al posto del piccolo scaffale contenente antichi faldoni e documenti impolverati, c’era una piccola scrivania, completamente vuota e ben lucidata, ed una sedia. Lo guardò perplessa. Lui facendole segno con il braccio le disse che quello ora era diventato il suo angolo. Certo, se lei lo avesse voluto. Aveva ritenuto utile organizzarle uno spazio all’interno del suo ufficio, o forse del suo stesso cuore, dove avesse potuto sentirsi libera di essere se stessa e di lavorare lontana dalle distrazioni degli studenti che popolavano giorno e notte le sale studio della biblioteca. Lì avrebbe potuto terminare di scrivere in tutta serenità la sua tesi. Si sentì profondamente lusingata, forse commossa da quel gesto incredibilmente premuroso e del tutto inaspettato. Non sapendo bene come esprimere la propria gratitudine, si limitò a fare un cenno con il capo e a ringraziarlo. Da quel momento trascorsero insieme quasi ogni ora della giornata lavorativa, a parte quelle in cui il docente teneva le sue lezioni. Alla macchinetta del caffè, in laboratorio, nel suo ufficio. Ogni momento contava, ogni momento era importante. Il giorno della laurea finalmente arrivò. Era primavera. I due ragazzi ora erano finalmente pronti a fare il grande passo che gli avrebbe immediatamente catapultati nel mondo degli adulti. Un mondo affascinante, di cui tuttavia ancora non conoscevano le regole, ma che avrebbero poi con il tempo imparato a conoscere. Al termine della lunga e pomposa cerimonia, la loro relazione così come il rapporto di lavoro tra il relatore e la sua laureanda, ufficialmente e allo stesso tempo finirono. Per tutti loro una nuova vita, quella stessa notte, iniziò. Lady Margot

  • Bacchanalia

    L'impavida Baccante discinta e indiavolata frenetica si muove sinuosa sulla terra. Bollente e generosa fertile e sensuale a piedi nudi, erotica, preannuncia la vendemmia. Pagana la sua smania scatena fianchi e seni la gonfia vigna è pronta e Bacco ora si inquieta. Lady Margot

  • 1995

    That time in my life, when all was so right. Flowering trees, figs and big grapes. The bed was the craft, the Moon still too far. I was just a child, You always on my side. No fear with your guide, there were only you and I. Lady Margot

  • Luglio 2020

    Io non lo so dove poi ce ne andiamo quando smettiamo di esserci. Dove finisce tutto il nostro incessante pensare? E tutti quei sogni, l’anima, i baci? So di certo, che quel mattino d’estate, quando m’hanno chiamato, io nel mio corpo esistevo tanto quanto tu, forse, dal tuo già te ne andavi. Ed è stato un bene che poi tu sia restato, come avremmo saputo altrimenti, in tanta confusione, dove ritrovarci? La vita, come la morte, è solo un passaggio. Così m’hai insegnato. La prossima volta, allora, ricordati di lasciarmi il tuo nuovo recapito. Lady Margot Una figlia, la Tua

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